Studio legale penale Torino – Social,Twitter e haters. Come difendersi?
Studio legale penale Torino – In Italia la giurisprudenza si occupa ormai da tempo dei crimini commessi attraverso i social.
Vediamo con lo Studio legale penale Torino quali rimedi esistono per tutelarsi anche in questo ambito.
Le norme in materia di tutela dell’onore e della reputazione sono applicabili anche ai social come Twitter, Facebook, Instagram.
L’art. 595 del nostro codice penale punisce con la reclusione o con la multa chiunque comunicando con più persone offenda l’altrui reputazione.
Perché si possa configurare il reato di diffamazione le espressioni diffamatorie devono essere idonee a ledere o mettere in pericolo la reputazione della persona offesa. Anche mediante social e Twitter, quindi. Nei casi in cui la diffamazione è posta in essere attraverso strumenti che sono idonei a diffondere in modo importante il messaggio offensivo, come i social appunto, allora si potranno integrare delle aggravanti.
Questo significa che l’uso di Twitter richiede attenzione.
Tuttavia non bisogna cadere nell’errore di pensare che ogni volta che un soggetto si senta toccato nella sua “sensibilità” o nella sua reputazione, ci sia una diffamazione.
Si tratta infatti di un concetto che va valutato nel caso concreto, sia perché esistono delle situazioni in presenza delle quali un comportamento astrattamente diffamatorio perde del tutto la sua valenza “illecita”.
Ciò avviene in presenza delle cause di giustificazione e, in particolare, dell’esimente dell’esercizio di un diritto.
Ma qual è il limite all’esercizio del pensiero oltre il quale si ricade in un comportamento penalmente illecito? I diritti ai quali con maggior frequenza si riconosce una valenza scriminante in tema di diffamazione sono quelli di cronaca, di critica (anche politica) e di satira.
Ma non si tratta di diritti garantiti “sempre e comunque”. Anch’essi devono sottostare a determinate regole (che vanno a tracciare il fondamentale – e non sempre chiaro – confine tra il lecito e l’illecito).
Importanti criteri sono verità, pertinenza e continenza.
Concentrandoci su Twitter, nessun dubbio sorge riguardo alla punibilità di una diffamazione commessa mediante il tweet vero e proprio, l’esternazione di una frase in 140 caratteri.
Ma grande attenzione va fatta anche nel caso del c.d. “retweet”, dal momento che, ad esempio, non ha alcuna rilevanza giuridica l’aver inserito, sul proprio profilo, la solita frase “Retweets are not endorsement” (ossia i retweet non costituiscono approvazione).
Occorre poi distinguere ulteriormente. Attraverso il retweet puro e semplice (c.d. “naked”) si condivide un messaggio già inviato da altri.
Questo messaggio potrebbe contenere in sé la frase offensiva oppure un link ad una pagina web contenente le informazioni diffamanti. Nel primo caso si potrà individuare come responsabile della diffamazione sia l’autore del tweet originale che l’autore del retweet.
Si potrebbe, tuttavia, ritenere che il retweet possa assimilarsi ad un “virgolettato”. Di conseguenza, si dovrebbero applicare al retweet le regole già individuate a proposito delle interviste in cui il giornalista, virgolettando le dichiarazioni potenzialmente diffamatorie dell’intervistato, le riporti all’interno di un articolo.
Il giornalista risponderà di diffamazione per le dichiarazioni rilasciategli dall’intervistato?
Sul punto la giurisprudenza ha assunto due diversi orientamenti: uno più restrittivo e l’altro più libero.
Secondo l’orientamento più restrittivo non vi sarebbe alcuna differenza tra la condotta dell’intervistato e quella dell’intervistatore (che si pone quale veicolo delle frasi diffamatorie virgolettate). Di conseguenza, perché il giornalista possa invocare l’esercizio del diritto di cronaca dovrà effettuare due tipi di verifiche.
Il primo riguarda la veridicità delle informazioni riportate tra virgolette e riferitegli dall’intervistato e il secondo la continenza delle espressioni utilizzate dall’intervistato.
Secondo l’orientamento più libero e garantista, invece, il criterio di verità deve essere riferito al fatto che l’intervista sia stata realmente rilasciata (e non al contenuto dell’intervista stessa). Tale orientamento – con qualche particolare precisazione – è stato accolto circa dieci anni fa anche dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.
Stesso discorso – seguendo le indicazioni offerte dalle Sezioni Unite – potrebbe essere fatto per i retweet. Quindi, un retweet con commento di approvazione del tweet diffamatorio ritwittato non potrà in alcun caso ritenersi espressione del diritto di cronaca.
Nel secondo caso (quello del retweet di tweet contenente unicamente un link che rimanda a un blog contenente le frasi diffamanti), invece, assumerà maggior rilievo il profilo probatorio relativo al fatto che chi ha ritwittato abbia realmente letto la pagina linkata.
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